Nazario Pardini
NEL FRATTEMPO VIVIAMO
Recensione di Rossella Cerniglia
Il
titolo dell’ultimo libro di Nazario Pardini, Nel frattempo viviamo,
concentra ed esprime - come sempre avviene in un’opera letteraria - il
senso sostanziale di essa, racchiude in nuce, il sentire e l’essenza
tematica che l’hanno prodotta. A partire da esso, è dunque da indagare questa
condensazione di senso che è il nucleo assunto a fondamento dell’intero testo.
Analizzandolo
e vagliandolo alla luce complessiva dell’opera, mi sento di porre l’accento,
piuttosto che sul “viviamo”, in quel “Nel frattempo” che induce,
e apre uno spiraglio sul sentimento di un’attesa: all’ansia o alla paura di un
qualcosa di fondamentale che è taciuto, o per lo meno, per il momento,
rinviato, tenuto a bada o allontanato, nella situazione di fatto del vivere: da
quella situazione dell’essere gettati a vivere - direbbe Heidegger - che
ci consegna come esser-ci in questo mondo. Perciò, è sì vero che il
libro è incentrato sul vivere e sulla vita, illustrata in tutte le sue variopinte
manifestazioni e declinazioni e forme, ma quel “Nel frattempo” sposta l’asse
di questa visuale e la rende obliqua a chi legge. Così il senso mi pare si
condensi più sull’elemento non apertamente focalizzato che su quello del vivere
che di per sé si mostra. E la percezione di questa attesa che rimane nell’ombra,
come celata dietro una cortina, è tuttavia elemento di costante richiamo.
Nei versi incontriamo dunque la vita, il
quotidiano perdersi e frantumarsi di noi nelle esperienze esistenziali, e la ricomposizione
dell’armonia prodigiosa, quando lo sguardo si innalza a sfere più elevate e
universali.
Nei pochi versi della p. 23 (quasi tutte le poesie mancano di una titolazione) troviamo,
vividamente condensata l’essenza della vita, poiché la morte delle cose conduce
l’uomo di fronte a quello che è pure il suo inesorabile destino: “Uccide il
cielo/ un altro giorno ancora;/ cadono frutti “paccoli”/ consunti poi/ da vespe
e da formiche”.
I versi della p. 27 ci aprono, invece,
magnificamente, all’immagine dello scorrere inavvertito del tempo nella dimensione
umana, dimenticato nelle cure giornaliere, nell’urgere degli accadimenti
o con il perdersi dello sguardo nella bellezza delle cose e del mondo. Il
vivere, continuamente ci svia dall’idea di questo insensibile e inarrestabile
corso, dall’idea della fine cui conduce questo misterioso passaggio, questo silente
fluire: “Come è scaltro il tempo!/ Mi nasconde il suo passare/ ora con il
profumo del mare,/ ora con il volare dei passeri,/ ora con le foglie rame
quando autunna...”. Tutto sommato, una visione della realtà che mi pare approdi
al senso heideggeriano dell’esistere. Perché al di là del contatto intenso con
la vita, l’idea della fine se ne sta acquattata nell’ombra, a sottolineare l’urgere
implicito di una domanda: “Di tanta vita, che resta?” Si vedano allora i versi
della p. 28. È un panta rei che conduce in un gorgo, quello che
cerchiamo, con tutte le nostre forze di esorcizzare, immergendoci nel fluire
della vita, fisica, consistente, emozionale. Ed emerge allora il senso di quel “Nel
frattempo” che racchiude il vero significato, l’anima inquieta del libro,
il senso di un’attesa che mi pare pregna della tonalità emotiva dell’”Angoscia”
heideggeriana. Alla p. 29, la domanda è esplicitamente formulata: “Si muove
il cielo, la terra,/ il sole,/ l’universo;/ ma dove andremo?/ Come mi sento sperso!”
Così, di fronte alla vastità di questo eterno moto, del perpetuo divenire, l’anima
si smarrisce. E forse ad essa il poeta intende alludere nei versi di p. 30, quando
dice: “Ho conservato una foglia; / (...) È lì in un barattolo/ sotto vuoto
spinto./ Mantiene, sì, l’aspetto/ di chi muore,/ ma pur sempre un colore senza
fine”. E mi domando se “questo colore senza fine” non rievochi forse l’elemento
che permane al di là della finitezza insita nell’esperienza terrena.
La dimensione del ricordo, assai
presente nei versi, è invece elemento vitale riferibile proprio alla nostra
terrestrità, costitutivo del nostro essere: è il rivivere la dimensione del
nostro passato, che sempre si fa appiglio alla vita, rievoca la bellezza ed
unicità della nostra percezione, e la riporta in noi, riconducendoci in un
tempo altrimenti abbandonato, tramontato per sempre. Il passato torna a vivere
nel poeta, e i ricordi sono quelli del paesaggio amato, delle campagne della
sua terra a cui il suo cuore si rivolgeva nell’infanzia e nell’età giovanile: “Ho
sorseggiato grappoli di ricordi/ non ancora maturi di sole/ nell’ultima fumiga
bruna./ Il palato ha gustato/ comunque/ l’asprore/ di forza sanguigna/ che
esplodeva la vigna dell’anima/ avanti che fosse novembre.”
A volte, però, i ricordi tornano alla
mente del poeta come in una lontananza remota: “...per dirmi che l’anima un
giorno/ era tatto, colore, profumo di fieno,/ sapore di bosco...” e come dalla
lontananza dalla stessa vita. All’interno dei versi, nel loro dispiegarsi in
pienezza vitale, indoviniamo allora l’anelito e la ricerca di un senso non
effimero ma radicale, di questo inestinguibile scorrere del tempo nel divenire
di tutte le cose. Ma non possiamo che tornare alla vita, finché viviamo. Non possiamo
che tornare a quel “Nel frattempo viviamo”.
Oltre alla dimensione
memoriale, un altro elemento sovviene alla vita, le è anzi indispensabile, ed è
l’illusione, i mondi da noi stessi creati, che ci sostengono e danno
forza al nostro stesso cammino. Anche la poesia attinge perennemente alla sua indomita
forza, misteriosa e creatrice: “Stai con me/ sul molo del mio mare/ forse
traspare, se restiamo quieti,/ tra i barbagli dei flutti/ e il maestrale,/ la
sagoma dell’isola fatata...”.
Circa una metà del libro è costituita da
una sezione che non avevo ancora menzionato, dal titolo Dal serio al faceto - Dal sacro al profano.
È frutto di una smaliziata visione, impregnata di quel sentimento profano,
dolce e amaro, della vita, irriverente e mordace che mostra le sue qualità epigrammatiche
e ci riporta spesso, con un rapido e vivace tratteggio, a un quadretto che condensa
il nucleo della riflessione etica ed esistenziale. L’ironia è contesta ai
versi, e tra essi evidenzierò soltanto alcuni spunti paradigmatici, molti dei
quali hanno l’efficacia irrisoria e triste del mettere a nudo la vita. Eccone
alcuni esempi: “È come un lecca lecca, sai, la vita,/ finito non ti resta che
lo stecco,/ non te ne fai un becco, caro mio!/ gustala bene prima che sia
finita!” (p. 71). oppure: “La gioia è come un ago nel pagliaio,/ ti dai da
fare, sfraschi per trovarla,/ a un certo punto ti ritrovi gaio, perché ti
sembra quasi di toccarla,/ ma la paglia finisce e c’è lo stollo...” (p. 74) o
alla pagina successiva: “Una strada stretta e pien di ghiaia/ è la vita,/ nei
pochi tratti lisci appare gaia,/ ma in salita./ o in qualche buca piena di motriglia...”
E ogni tanto ricompare la sete di eternità
che è nel poeta e nell’uomo: “Gli uomini ragionano e parlano/ come se fossero
eterni./ Metti caso che si accorgano di non esserlo,/ anche se in ritardo,/ tentano
di tutto per diventarlo” (p. 78).
In una dimensione non nichilista, il senso
della vita è quasi sempre rinvenuto in ciò che di eterno permane in questo misterioso
fluire. È attestato dalla tensione alla sfera ideale, dall’empito del sentimento
che diviene anelito di Assoluto. E così, possiamo dire, che si chiude il
cerchio, e il poeta torna a se stesso, al suo vero essere, quasi che queste
ultime riflessioni, questi ultimi versi, non fossero che divagazioni, variazioni
sul tema dell’esistenza, per tornare poi sempre a quello cruciale, eterno,
vasto, che riconduce l’uomo alle proprie radici, al suo anelito costante e
indomabile, che travalica il senso di ogni finitezza e caducità.
Rossella Cerniglia
Nazario Pardini
NEL FRATTEMPO VIVIAMO
Prefazione di Enzo Concardi, 2020
Guido Miano Editore, mianoposta@gmail.com
Mi complimento di cuore con la dottoressa Cerniglia, la sua è un'autentica lettura della Silloge da critico letterario. Nel mondo della cultura credo sia importante riconoscere il valore altrui e pensare al verbo competere nella sua reale accezione, ovvero 'incontrarsi'. Mi chiedo perchè noi uomini tendiamo a perdere di vista certe etimologie a vantaggio delle interpretazioni peggiori. Una recensione, ripeto, che mi ha catturata. Grazie di cuore e un affettuoso saluto.
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