lettura di Annalisa Rodeghiero: Il filo
della matassa.
Una poesia traboccante di sentimenti,
una poesia intensamente meditativa che sa fare del vissuto la sostanza prima
del canto e che si esplicita con generosità e complessità di contenuti, quella
di Paraboschi in …e ci indossiamo
stropicciati. Una versificazione che sceglie comunque l’intelligibilità del
testo come dono di comunicabilità al lettore - rinunciando a neo-sperimentalismi
- in una forma lineare, libera ma arricchita da splendidi endecasillabi ed
efficaci metafore e sinestesie che rimandano a certi echi montaliani.
Chissà dove avrà perso il filo della matassa dei sentimenti, il
poeta, se dopo una serie di considerazioni sulla inadeguatezza dell’animo umano
a fare di noi esseri nuovi, decide
che l’abito da indossare per andare incontro al giorno non può essere quello
fresco di pulitura, ma quello senza stiratura riposto nel fondo dell’armadio,
stropicciato appunto:
“la
nostra scorta di chiusure è così grande/ che non basta la buona volontà per
fare di noi/ esseri nuovi e alla fine ci indossiamo stropicciati”.
Più volte torna la stessa sensazione
d’arrendevolezza nelle poesie successive:
No,
non è vita l’annaspare/ dei piedi dentro l’acqua. Per stare/ a galla è meglio
fare il morto/ ad occhi aperti verso un cielo/ che sfarfalla di bagliori sopra/
le nostre ciglia secche per il sole.
E ancora: Trapassa anche te il malessere/ della non appartenenza come se/
viaggiassi dietro vetri oscuri? (… ) Bivacchiamo
con addosso squame/ congelate da troppi inverni d’astinenza.
E il discorso potrebbe finire qui se
non ci fosse, invece, la tensione verso un ulteriore, incessante tentativo di ribaltamento
della situazione attraverso la descrizione di gesti rintracciabili in alcuni
atteggiamenti significativi quali la gratuità che sempre dà valore ad un
incontro tra esseri umani o addirittura il perdono, consapevoli che nulla andrà
perduto di ciò che in noi ha fatto breccia:
Siamo
carte assorbenti che s’impregnano/ di tutte le calligrafie
durante ogni istante/ che è concesso vivere (…)
Un’anima quella di Paraboschi che si
consegna alle voci e alle cromìe della natura per riemergere arricchita di
bellezza a cui attingere per il suo versificare:
Raccontami
invece l’acqua ch’è già corsa/ le radici che hanno dita lunghe/ e le campane e
i suoni che ascoltavi (…) e poi descrivi le siepi che circondano/ i tuoi sogni
senza recinzioni e i fiori/ che non puoi cogliere nei campi del ricordo.
E non riesco a non riportare per intero,
almeno la prima, incantevole strofa - un dipinto - di:
Un
sogno rimesso in piedi (pag.
33)
Se non capisci il fascino che possiede
un giardino abbandonato e non avverti
né la stanchezza che c’è nei cancelli
arrugginiti e chini davanti alle
sterpaglie
che impediscono il passo, né il respiro
di un catenaccio sferragliante
che sembra miagolare, non saprai
gustare
la bellezza di quelle rose imbastardite
che rifioriscono malgrado ogni incuria.
(…)
Un’anima che si carica anche di
immagini di memorie, attraverso cui il reale si impregna di quel senso di
saudade che attraversa l’intera silloge e che trova l’apice in alcuni passaggi
di rara dolcezza ed efficacia descrittiva:
Ci
fu un tempo in cui mi frugavi dentro/ come questo vento che accartoccia il
fogliame/ al fondo delle grondaie prima che piova.
E ancora: Anche oggi che piovono dure frecce d’acqua/ e le foglie del ciliegio
paiono lacrime arrossate/ è forte la tentazione di riscrivere qualcosa come/
“piove sopra i nostri volti silvani”/ e traboccare così dentro la malinconia
facile. (...)
Lo sguardo di Paraboschi diventa
sentimento etico quando si allarga alle creature tutte, creando versi
umanissimi di solidarietà nei confronti di chi soffre:
Allora,
non prima, sarà il non detto, / la parola non uscita il suono tronco/ Il gesto
generoso non compiuto […] le nostre non azioni, l’indifferenza (…).
Uno struggimento dolce e privo di
sterile “lamentatio” è riservato al padre di E. E. ;
Un
figlio sei tu stesso mentre ti osservi/ dentro lo scorrere del tempo, / in lui
sono anche i tuoi limiti […] e non so staccare il tocco della tua mano, / unico
contatto vivo, lasciarti andare/ come un astronauta nello spazio buio (…). Come a dire che è sempre valido il
concetto caro a Gibran secondo cui i nostri figli non sono figli nostri. Ma qui
si aggiunge qualcosa in più: i nostri figli sono la rappresentazione di noi
stessi e se decidiamo di perder(li) per
sempre dentro l’ombra dei ricordi è solamente per poi inseguir(li)in continuazione.
Armonia di opposti necessaria all’equilibrio
universale.
E per restare in tema di scelte
individuali dal peso imponderabile, che dovrebbero essere fatte nella consistenza del silenzio, Paraboschi
azzarda, con esito potente, una risposta inaspettata e disincantata a Auden, in
quella che diventa la sua verità sull’amore di cui non posso sacrificare alcun
verso:
La
verità, vi prego, sull’amore
“ non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole”
W.
Szymborska
E
adesso, vi prego, facciamo silenzio.
Lasciamo
a casa ceri, crocifissi e corone,
senza
scomodare il fuoco eterno.
Che
ognuno senta nella carne
com’è
lancinante dover decidere
chi deve
restare e quando andare.
Ma
facciamolo da soli
nelle
nostre stanze
senza
farci intervistare
da
domande come:
“cosa prova di fronte a questa
decisione?”.
Pensiamo
al nostro cane.
Chi
vuole scelga il gatto
e poi
decida se sia facile parlare
attorno
alla speranza che va via.
Ma lo faccia
sottovoce,
Dio ci
ascolta anche quando
Lo
pensiamo con la “d” minuscola.
Un canto di importante riflessione sul
significato essenziale della vita (vorrei
capire il mondo cercando/ le risposte alle domande semplici) attraversa
tutta l’opera e alcuni passaggi sfociano in illuminanti sentenze:
ciò
che conosci e temi non è vita (pag.
7)
la
razionalità è un lago di abbandono/ nel quale siamo andati a fondo. (pag. 9)
e
tutto sarà più facile:/ ci basterà dimenticare di non avere vissuto (pag. 13)
Razionalità e sentimento si
compenetrano. Noi abbiamo questa vita e dobbiamo cercare di viverla al meglio, sembra
volerci dire Paraboschi, perché se è vero che l’uomo deve fare i conti con la
ragione è anche vero ciò che scrisse Hölderlin in Iperione “L’uomo è un Dio
quando sogna, un mendicante quando riflette”. Forse si tratta solo di saper
trovare il giusto equilibrio tra queste due componenti essenziali:
Ci
sono persone come certi libri/ che quando li riapri dopo anni/…/scopri che
nulla/ dentro te è mutato, di nuovo/ si accende il desiderio e il sogno/ prende ancora il volo, e tu
vorresti/ ma non puoi, e neppure sai farlo (…) allora lasci un segno/ dentro
quel libro appena riaperto, / a futura memoria di ciò che avresti/ voluto se avessi smesso di pensare.
È dunque giusto rinunciare al desiderio
di essere noi stessi, di essere ciò che in fondo siamo realmente? Dovere e
desiderio forse si osteggiano solo in apparenza ma in realtà possono convergere
e in quel caso la nostra vita è piena, perché in fondo, noi siamo il nostro
desiderio. Per dirla alla maniera di J. Lacan, forse un giorno ci verrà
chiesto: “Avete agito in conformità al desiderio che vi abita?”:
Chissà
se la sapienza è tutta chiusa/ nell’abbandonare i desideri/ lungo il fossato
che circonda i giorni [...] Allora cesseremo d’essere mendicanti/ in cerca di
conferme e la stanchezza/ del muscolo cardiaco e del pensiero si assopiranno/
dentro il bagliore rassegnato di un giorno/ che cerca appoggio sopra l’omero
della sera.
La sera, metafora della tarda età
giunge come un vivere/ senza spazi per le
illusioni e quello che era stato un interrogarsi continuo sull’esistenza e
le sue contraddizioni, sui rimpianti e i rimorsi, sembra placarsi, sospeso tra la consapevolezza dei
limiti esistenziali e un senso di abbandono al mistero universale dove,
magnificamente, finito e infinito si intersecano:
Eppure
ci sarà un luogo in cui/ tutto apparirà chiaro, / e lo stridio tra due storni/
non avrà bisogno di traduzioni […] Allora, come una goccia/ quando si tuffa nel
catino, / saremo particelle di finito, / sperdute dentro l’infinito.
Rimane comunque un ultimo, estremo
interrogativo e così si chiude il libro: e
mi domando di che colore sarà il buio.
Annalisa Rodeghiero
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