Gian
Piero Stefanoni. Lunamajella.
Edizioni Cofine. Roma. 2019
LUNAMAJELLA
Lunamajella,
globo sospeso
che
quasi ci tocca, verso Palena
ma
è come verso Marte: astronave
che
s’innalza e s’intaglia alle sue coste
lasciandoci
come migratori passare.
Eppure vagando non avremmo
che macchie,
altre aquile in volo.
Dalle feritoie riva verde,
sorgente.
Grande addormentato animale.
Una
plaquette di largo respiro, in cui l’autore con slanci di empatia costruttiva,
si congiunge alla terra, al mare, alla campagna, a Fara San Martino, a
Civitella, inventando unioni di simbolica resa, costruzioni di rara efficacia
visiva: segmentazioni, ellittiche iuncturae, invenzioni verbali, accostamenti
imprevisti, tutto contribuisce a rendere efficace il discorso poetico.
Semplice
nella sua veste grafica con la Lunamajella in copetina e in quarta un lacerto della
prefazione di Anna Maria Curci, il libro fa da prodromicio invito alla lettura
di 36 poesie che parlano di vita, di luoghi, di vicissitudini, di memorie, di
storia e di armonie. Sì, di armonie, dacché la poesia di Stefanoni si diluisce
su uno spartito musicale fatto di alti e bassi che segmentano le emozioni e il tracciato canoro dello spettro. Seguire
la sua armonia, significa amare il canto, i suoi risvolti, le sue ondulazioni;
amare la vita con tutta la sua portata epigrammatica, dacché qui c’è tutta con
la simbologia emotivo-rappresentativa di
una terra in cui le radici affondano e si allargano fino ad abbracciarla in una
rete vincolante, dove “… l’uomo lungo il pianoro/svanendo al vallone/ è terra
che resta nella semina/ fredda del lutto, nel grido/ che dà sempre – anche a
sera –/ il suo frutto”; e dove “Il sasso strappato all’ulivo rileva/una
separazione dell’acqua e del germoglio -/ del campo – il ventre rivolto
dell’uccello…”; e dove “ … Respira la tua paura/ l’abbocco della valle, si
ferma/solo quando ti allontani…”. Le iperboli e le metafore unite alle
intuizioni creative danno ampi spazi al dettato poetico, all’architettura
metrica, ai significanti aggrappati ai significati, e tutto è morbido e
arrivante, nuovo e innovativo, non di certo frutto di positure di tipo
prosastico, di riforme senza senso che tanto male hanno fatto e continuano a
fare al focus del poema. Qui tutto è scorrevole, fluente, ontologicamente vissuto; i versi si
susseguono con vari moduli metrici, più vasti, meno, ma sempre trapunti da
accostamenti umani che li rendono vicini: “Giacché/ anche tu cerchi sbocco/
nell’autunno di viole/ che di noi non si scorda -/ un azzurro, un giallo/ e un
rosso per chi resta/ ora che le anime/ come uccelli si lanciano -/ più non si
guardano torve - / verdi in un lago verde di monti/ dentro quel cielo/ che mai vuole perderci”
(Lunamajella (VII)). I raddoppiamenti verbali, gli anacoluti, gli intrighi
lessicali, gli accostamenti cromatici non sono altro che concretizzazioni di
stati emotivi di fronte alla maestosità della bellezza. La Natura si fa
interprete e compagna di viaggio: prende il poeta per mano e lo accompagna nei
meandri della sua anima, lo stordisce, lo inibisce, lo frastorna con la potenza
delle sue altitudini. Il poeta è là che vuole volare, oltre le cose finite,
portandosi dietro però il peso del profumo della terra che ama; della parola
che non riesce a staccarsi dai suoi dintorni dacché ne è linfa, sangue; scorre
nelle vene di Lunamajella, e resta appiccicata alla roccia per garantirne la
preziosità con i suoi tocchi dialettali, di memoria abruzzese d’area
teatino-frentana:
LA ROCCE
Da lùteme vè la piove a rompe lu
dubbetà
lu fàvezze ‘nsanguenate
dell’ùmmene.
Benedetta rocce assetate
‘npette,
vattute da lu tempe, maldette da
lu core.
Se pije lu rane lu taje che ce
vò.
Nazario Pardini
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