Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
M.
Grazia Ferraris. Itinerari (forse)
desueti. Edizioni Helicon. Arezzo. 2019
(…)
Confezionavi poi le varie
parti
con veloce e felice sicurezza.
Stiravi attenta il tuo
capolavoro:
me lo presentavi zitta, in
attesa
del responso mio un po’
lunatico.
Era tutto bellissimo e
perfetto, lo so,
Mamma, grazie ancora (Il
maglione).
Melodia,
trabocco di sentimento, rievocazione, palpabile sintonia con oggetti che hanno
fatto parte di un vissuto, vita, amore, immagini, fresche e antiche ricordanze,
scosse emotive, tutto si fa nostalgico
e melanconico; sì, melanconico per non
avere detto o fatto cose che una volta sembravano ovvie e che ora, alla luce
del tempo, assumono connotati umanamente spossanti. E’ qui la naturalezza e la
sinfonia del canto di Maria Grazia. Lo pesca dal fondo della memoria, non
ultimato e confezionato, ma da rifinire con parole dettate da un maglione, da
una casa, da un’attesa… Da tutte quelle occasioni che si sono sperse nelle
macerie degli anni.
Partiamo
da qui per affondare la penna nel cuore della plaquette che mi è giunto oggi, 4
aprile, per bontà della Ferraris: ITINERARI (FORSE) DESUETI. Un bel libro di
poesie: 45, in tutto, precedute da una esegesi introduttiva a firma dell’Autrice.
Affondi di natura esistenzialistica, psicanalitica, naturalistica che lasciano
l’anima a vagare su ambienti che hanno avuto un grande apporto sulla sua formazione
umana e poetica: da Al lago a La casa, da Gavirate d’inverno a Il mio paese, da Firenze a Pisa, da Lucca a
Siena, da Venezia a Roma, da Autunno a Alberi nudi, a Maternale… Una intensa
perlustrazione in cui l’anima si carica di immagini e memorie da riportare a
casa per il bene del poièin: memorie, ritorni, affetti, quadri e accadimenti
sedimentati dentro e disposti a nuova vita. Credo sia importante per introdurre
questo nostro scritto riportare un lacerto tratto dalla introduzione: “… Nel
tempo, nella memoria avviene in ogni caso con tappe impreviste e diverse il
viaggio di recupero degli affetti; lo testimonia il gruppo di poesie dal titolo
Maternale…, ma avviene nella rievocazione anche la conquista di una maggiore
consapevolezza di sé e della propria storia”.
Consapevolezza,
storia: un aveu in presa diretta di tante occasioni che hanno formato tappe
determinanti di un vissuto. Tappe però
che si sono trasformate in immagini
e
noi sappiamo la profonda differenza che corre tra immagine e scussa realtà; il
reale si è fatto nuovo, contornato da pathos, energia emotiva, saudade,
sentimenti vari. Bisognerebbe far capire a tanti critici in cosa consiste la
vera poesia, quella che fa del vissuto la materia prima del canto. Eliminare
questo dato significherebbe annullare il canto; l’elemento di un insieme che
mai potrà essere amorfo, impersonale, minimalisticamente realistico.
Parlare
della poesia di Maria Grazia significa penetrare negli angoli più profondi del
suo esistere, dacché Ella, sebbene scrittrice versatile e disposta ad adattare ogni
tipo di narrazione alla sua indomabile ricerca, è l’arte di Orfeo che ama e
sempre ha amato. Quell’arte che le permette di conciliare le forze ontologiche
con iuncturae concise o espanse in base alla richiesta dell’animo; con l’essenzialità
della riflessione; con le meditazioni fulminanti che richiedono immediatezza e
prontezza espressiva. La conferma la troviamo da subito nella poesia
incipitaria dedicata alla musa:
(…)
“-Ah,
non mi lasciare, misteriosa Musa!, ti prego, / torna coi fiori che pur si
spampanano nel vento,/ con la sabbia impalpabile della imperturbabile/
clessidra, consolazione ultima ed inevitabile/ nel silenzio della mia solitaria
sera” (La mia Musa). Il discorso si fa subito ampio e generoso, amabile e
fluente, dove gli accordi consonantici e rimici, e gli abbrivi sinestetici ci
pongono di fronte ad un versificare legato alla nostra tradizione più che a
tentativi innovativi tipo riforma prosastica intenti a cancellare ogni
influenza memoriale, autobiografica, e musicale della architettura poematica. E
qui la Ferraris con la sua epica introduzione al poema sembra quasi richiamare
un odisseico viaggio omerico; una invocazione alla Musa. E si fa subito vita,
esistenza, vicissitudine il suo dire. Si toccano in questa invocazione dei
punti fermi dell’esistenzialismo corrente; dello splenetico abbrivo
epigrammatico: solitudine, sera, inquietudine, questioni e risposte lasciate al
mistero della stessa poesia “Da quale maestrale, da quale mare inesplorato,/ da
quale città sepolta te ne vieni?” (Ibidem). E’ come pretendere dal vento verità
dinanzi alle quali la vita non ha risposta. La sera, la simbolica quanto mai
palpabile condizione umana di fronte al mistero del redde rationem: chi siamo?
E il nostro futuro? E il nostro patrimonio memoriale? Saranno le meditazioni
sul rosso serale a dare risposte alle nostre inquietudini? E quale arte
migliore di quella della poesia ci può fare indagare sull’esistere e sui
dilemmi del quando e del dove. Insomma il primo verso ci fa da prodromico avvio,
da antiporta ad uno spartito che con le sue note ci compone una sinfonia di
acuti wagneriani. Gli alti ed i bassi, le alzate e le rattenute, le pause e le
espansioni non sono altro che reificazioni di stati d’animo; ondulazioni
emotive scatenate dal fluire della romanza. Fare della vita un’opera d’arte,
non è facile. Occorrono impennate verticali, ascese di onirica fattura,
impressioni di un realismo fattosi cuore del nostro essere; ma soprattutto
occorre un linguismo che sappia correre svelto e pronto dietro i grovigli che
l’animo partorisce in stato di grazia. E qui c’è lo stato di grazia, il verbo
che si fa servo di una storia, aiutante indefesso degli stadi spirituali, sia
che si imbatta col profumo della rosa (nessun profumo potrà mai rivaleggiare…),
sia che contempli lo scintillio del
lungolago (Scintilla il lungolago come dama al sole…), sia che incontri la casa
quieta nell’attesa (Era silenzio intorno, muto no non già…), sia che scorrazzi
per Gavinate d’inverno alla ricerca delle radici (della terra, del lago, della montagna
alta…). Tutto è personale, tutto è desto; tutto è diretto a tradurre suoni e
colori nella poesia dell’homme. E se la poetessa si abbandona ad un viaggio
estremamente umano, troppo umano, alla ricerca di un’isola che la conduca a
ritrovare se stessa, lo fa per tirare un bilancio sul suo esistere: “… Dentro…
le emozioni incoffessate, stupefatte/ di pensieri vanamente consumati/ in
metafisiche oniriche viste quotidiane./ Ricerca di fedele consistenza: viaggio”
(Viaggio), dacché sa e conosce il valore simbolico de La preja buja (la pietra scura/buia):
…
La preja buja. Sta dentro di
me, immobile
megalite. Scura o buca? Buja perché?
Entrambe fanno parte della mia
storia.
A ritroso percorro le mie origini.
Ciascuno in sé porta il suo
futuro, scritto.
Un palinsesto bucato da
ritrovare, scavare,
con la magica pazienza degli
antenati.
La preja: il titolo
d’attrazione
dei bambini d’allora: ma il
magnete
impazzisce, il futuro previsto
si dilegua:
aspettare che discenda
un’acqua e ci bagni
fino a che la preja misteriosa
buja divenga.
Scozzòla antica che chiede il
suo pedaggio:
è così chiaro il mistero…
E
forse nemmeno la poesia può svelare il mistero che circonda gli abbrivi della
vita, la natura dei sogni, e l’attracco all’isola agognata.
Nazario Pardini
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