Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
"IL
POETATTORE" DI ANGELO MANCINI (MANNI EDITORE)
Presentato il
31 gennaio 2015 nel Municipio di Monterotondo
Alla manifestazione, oltre a Franco e alle autorita' comunali (sindaco ecc.), erano presenti in qualita' di oratori : il giornalista
Rai Igor Rtghetti e i comuni amici Sandro Angelucci e Massimo Chiacchiararelli
nonche' il Prof. Antonio Lagrasta
La poesia in genere, ma questa in particolare, non
la si può comprendere al di fuori del contesto storico in cui viene alla luce.
Angelo Mancini è un poeta postmoderno e la sua poesia vive la crisi della
modernità, il declino identitario e valoriale di culture dominate dal consumismo
sfrenato e dalla globalizzazione, dall'invadenza
macroscopica delle comunicazioni e dalla diffusione di un pensiero unico a
livello mondiale. L'habitat che fa da
sfondo a questa poesia è una provincia lacerata dagli sconquassi metropolitani,
un centro eterogeneo di varia umanità, dove gli attuali modelli omologanti si
scontrano con i residui di una secolare cultura contadina. Sul campo restano
rovine di un'umanità smarrita, disorientata, e sono queste le quinte da cui
sbuca il poetattore: un mimo
sconvolto e paradossale della realtà, un clown
deforme e stralunato che dà vita a racconti satirico-tragici tali da smuovere moti
di riso e sensi di pietà.
Tuttavia non vorrei essere frainteso. L'equivoco
che sorge quando si tenta di inquadrare storicamente un'opera è di credere che
le sue radici stiano lì, nella realtà storico-sociale, mentre quello è solo l'alveo
che l'accoglie, il grembo, il luogo del suo apparire. Il seme della poesia è
altrove: nella più segreta humanitas,
nell'essenza spirituale dell'uomo, nei suoi archetipi che vogliono incarnarsi e
che nel caso di Mancini si sentono traditi, soffocati. Uno scontro, una frattura:
da un lato l'oasi interiore e dall'altro la dannazione esistenziale. Introversione
ed estroversione, teatralità ed intimismo fusi in un solo respiro. La scrittura
è oggettuale ed antilirica, bizzarra, di ascendenze neodadaiste e pop, dove si mette in scena la
confusione babelica ed il non sense del
vivere attuale. Il poeta si trova immerso in un mondo che contraddice
platealmente ogni istanza di comunione e di autenticità. Si sente defraudato di
tale ricchezza e da vita ad un canto sgraziato che rivela un'immensa sete di
grazia e di verità.
Una pièce teatrale
delirante e nevrotica, dove lo sperimentalismo, fortissimo, non è fine a se
stesso, ma alla rivendicazione accorata della spiritualità. Una poesia della crisi, dunque, che nulla ha
a che vedere con la crisi della poesia,
o con la morte dell'arte di cui si
fanno portavoce tanti menestrelli eccentrici, tanti manieristi vuoti, cantori
del Nulla nella postmodernità. In almeno due circostanze Mancini parla del
fallimento di una "missione". "La mia missione è impossibile
disperata", egli dice. Poi: "ma la strada è deserta / e la mia
missione proibitiva / assurda". Di che si tratta? chiaramente della
vanificazione delle valenze vocazionali dell'arte, ostacolate e cancellate dai
modelli dell'omologazione imperante. Il poetattore
vive una sorta di maledettismo ribelle, impotente di fronte a tanta aridità. E
dice a se stesso : "Che vai cercando? / Cosa pretendi? / Cosa vorresti a
questo punto: / scrivere per comunicare...? / Non vedi, / non senti / dunque? /
Si respira, / ormai / solo / indifferenza".
C'è un titanismo
perdente in questa poesia solitaria e ribelle,
anarchica e metafisica nello stesso tempo. Qualche
precedente potremmo forse trovarlo in Marino Piazzolla, per quella metafisica
sanguigna e libertaria che di lui conosciamo. Aldo Palazzeschi può essere un
altro riferimento, per quella sua poesia onomatopeica che mima la realtà. A ciò
si aggiunga il doloroso teatro dell'assurdo, della gestualità scimmiesca ed
istrionica che immerge il poetattore
nei movimenti canzonatori ed auto-canzonatori di una ballata popolare
inesistente, visto che il popolo è scomparso ed il suo posto è stato occupato
da una massa informe e grigia di automi, di numeri senza volto e senza storia,
privi di identità. Dice: "Che gran vuoto nell'anima / e come sento tutti
estranei / intorno a me. / Mi sembra un mondo irreale". Poi: "Perché
papà questo oscuro distacco / quando ci si vuole tanto bene?". E ancora:
"Teresa... Ginetto... / sapeste quanto mi siete mancati / in questi anni
difficili / e come vi ho cercato". Poi: "Amore caro amore mio / ... /
Perché non mi hai capito?".
Il
desiderio di infinito e di pienezza cozza con il sentirsi relegati nei limiti
soffocanti, ma nello stesso tempo amati, della relatività. Egli si sente attratto
e respinto in modi contraddittori dal Tutto e dal Nulla, dal bianco e dal nero,
dall'alto e dal basso, da ciò che è sublime come dalla meschinità. Il putridume
lo contagia e lo attira ("Si, forse è anormale ma mi attrae",
"Chissà perché"), e tuttavia egli brama le essenze, i cieli
incontaminati e puri (... mi siederò / sul water / a fantasticare / ... /
sognando / ... / un'alba primordiale e nuova"). Ed ecco, improvvisa, la
visione del nonno: "ti prego nonno / dimmi allora / dov'è la tua nave / in
che punto del cielo / (qui si soffoca si muore / e la penna / sul bianco
quaderno / è solo una tragica / comica illusione) / ti supplico nonno / ti
supplico / non te ne andare / ora / così / dimmi dov'è la tua nave / in che
punto del cielo / e portami via / con te / fuori dal tempo / prima che sia
giorno / prima che sia notte".
Fede
nello spirito, dunque, nella continuazione infinita della vita. E che dire di
quei versi che alludono ad una sorta di alter
ego, di doppio metafisico di se stessi? "Lo so si lo so che Ti fai /
tante risate / quando mi vedi / dall'Alto / così nano e maldestro / saltellare
/ ridicolo / nel Tuo mondo geniale / pallina colorata / nell'universo
infinito". Ed infine l'autocritica: "Come sono infantile / come sono
banale / mi do fastidio da solo". E ancora: "Oddio, come mi sento
miserabile". Sta qui, a parer mio, la grandezza, in questa capacità di
riconoscere la propria meschinità. E' la dualità di sentirsi "un uomo /
comune ed eterno / ossessionato da mille paure / e colto da immensi bagliori...
/ Un poeta, appunto. / Una sorta di intruglio / umano e divino. / A volte
infinito, / a volte nudo, / spesso disperato, / meschino". Una saggezza
che viene scambiata per follia, ma che viaggia invece sugli abissi della
follia. La quale, in fondo, non è che un sinonimo della dea ragione, se è vero,
come dice Mancini che "forse due più due non fa quattro / e non so se
l'uomo sia proprio / un essere intelligente". La saggezza, allora, è
questo "necessario delirio".
Franco Campegiani
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