Un racconto tanto surreale quanto reale. Di un
lirismo capassiano, dove la Natura si dilata, si amplifica, si armonizza, si fa
totale, plurale, universale, armonica creatura, sotto la magica penna
dell’Autore: “Ai nostri piedi, fra
le colline di cristalli, le valli s’aprivano al giuoco di ombre e di luci, i
boschi dai larghi profili espandevano profumi, il loro linguaggio profondo
capivo, in fondo la vasta pianura e fiumi e ruscelli, nastri lucenti tra i
prati già verdi, bizzarri colori, fiori e farfalle, ai lati, alberi alti,
ammiccanti…”. E Lei,
accompagnatrice fedele, dolce, spiritualmente assoluta, prende per mano lo
scrittore, lo porta nel mondo onirico della Bellezza: “Lei chinò la testa, vidi il suo collo,
l’orlo delle orecchie, la linea della nuca. Non era la chioma, o la silhouette
ad inebriarmi, ma la fierezza, l’alone di piacere che la circondava, non pareva
fatta di carne, di materia, ma di qualcosa più sensibile e puro. Una Bellezza
che non è del corpo”. Tutto, ogni sua parte fisica è tesa a spiritualizzare
questa magica presenza: da realtà a sogno, da sogno a realtà. Dalla vita in
mano ai medici, a una realizzazione potente di ricerca suprema; dal finito
all’infinito dell’anima umana: “Io e Lei partecipi di
un‘unica storia, di un'unica realtà.
Tutto ciò che
si scorge nell’infinito Universo fa parte di un unico, immenso disegno. Come si
possono raccontare le mistiche euforie al cospetto di paesaggi inattesi,
dinanzi a nuove, profonde verità…”.
Quell’infinitesima
parte dell’Universo che rende nullo l’uomo, anche se congegno del tutto,
soprattutto di fronte ad un bisturi che può allungare la vita di un attimo. Un
brano che avvince per la forza attrattiva di una parola che, pettinata a festa,
spazia in ogni angolo di Pan, in ogni atomo del mondo. Scorrevole, fluido,
incalzante, ti assale e ti trascina alla lettura, rendendoti impaziente di scoprirne
la fine: “Forse le visioni sognate avevano soltanto
un fine poetico, letterario, materno, morale, gentile, tranquillizzante…
In quel momento avvertivo tutto il disagio nel pensare a Lei.
Le calde
sensazioni si erano dissolte lasciando per intero, ingigantite, le mie antiche,
ossessive, ansietà”.
Nazario
Pardini
LEI
“…e ti rivelerò i primi
principi da cui
la Natura produce tutte le
cose,
le accresce e le alimenta,
e in cui
la stessa Natura
di nuovo
risolve le cose dissolte.”
(Lucrezio, De Rerum Natura)
La corsia si era schierata tutta dalla
mia parte, per solidarietà, o per consolarmi:
‹‹ Pensi che la natura sia matrigna, che
il tuo corpo sia un intruso? un taglio, un semplice rimedio e i tuoi anni
placidamente passeranno. Vedrai…››
“ Il chirurgo- rispondevo,- mi toglierebbe
la testa se fosse la cagione del mio male, l’altro medico sta bloccando la mia
sensibilità, assicura che non mi accorgerò di nulla…”
‹‹ Vedi, dunque, puoi stare tranquillo…››
Queste ultime, chiare, parole
scivolarono nell’abisso tenebroso del mio essere come una pietra in un
precipizio, rotolarono, lentamente rimbalzarono sulle pareti interne, sulle
cavità ormai prive di aria, con urti lievissimi, finché, ancor più lentamente,
tutto il corpo si distese, forse s’irrigidì e su di me scese un velo d’abbandono
o di pietà…
Lei
mi sorrise, era sola, non ricordo il luogo, se fosse una riva del sud o una
spiaggia toscana, oramai avevo i suoi occhi da guardare, belli da sentirmi
nuovamente male, ma non mi trovavo sopra una nave in pericolo, ero appena
uscito incolume da un involucro di muschio e un’enorme lampada alogena
proiettava la luce sulla mia figura…
“ Come vi chiamate?”- chiesi.
Lei
chinò la testa, vidi il suo collo, l’orlo delle orecchie, la linea della nuca.
Non era la chioma, o la silhouette ad inebriarmi, ma la fierezza, l’alone di
piacere che la circondava, non pareva fatta di carne, di materia, ma di
qualcosa più sensibile e puro.
Avevo il timore d’ammettere
che amavo principalmente quegli occhi, non riuscivo a guardarla dai piedi ai
capelli, ci sarebbe voluta un’ispezione capillare, minuziosa, la sua bocca ad
esempio era una cosa…
La prima volta dopo settimane,
anni forse, che un’immagine lieta m’impediva di soffrire; in quella specie di
chiarore che ci avviluppava, lei appariva disdegnosa di ogni regno, di ogni
nobiltà.
Uno sguardo gettava al mondo
che avevamo davanti, un altro benevolo su di me. L’istinto m’indusse a
seguirla, a fidarmi del suo riservato contegno…
Ai nostri piedi, fra le colline di
cristalli, le valli s’aprivano al giuoco di ombre e di luci, i boschi dai
larghi profili espandevano profumi, il loro linguaggio profondo capivo, in
fondo la vasta pianura e fiumi e ruscelli, nastri lucenti tra i prati già
verdi, bizzarri colori, fiori e farfalle, ai lati, alberi alti, ammiccanti…
Lei era l’essenza generatrice,
dispensatrice di ordine per cui i corpi inanimati, e il mio lo era, possono
tendere verso i loro luoghi naturali mentre gli esseri viventi continuano a
crescere e con amore si riproducono…
Altri paesaggi apparivano ed altri ancora,
grotte invitanti, pozzi profondi, anfratti, gole rocciose, filoni increspati
d’oro e diamanti, calori di vulcani, fiamme smorzate, combustioni lente, poi le
cascate, i cori, i soffi dei venti, melodie, litanie, nebbie splendenti, gole
incontaminate, vette immacolate, marmi, sculture sui monoliti, colline di
freschi pensieri…
Lei, la mia guida, presiedeva a
quel divenire incessante, designava la realtà da cui tutte le cose derivano:
l’acqua, l’aria, la luce…
Una benefica forza ci richiamava alla
pianura, dolcemente precipitavamo, rotolavamo sulla neve, strisciavamo con
l’orgoglio delle lucertole tra insoliti flutti di ghiaccio e tiepidi raggi di
sole…
In alto, affreschi di cielo,
geroglifici di nuvole, chiazze azzurrate…, più in là fragori di temporali,
colori scomposti dell’arcobaleno e ancora chiarori di lune… qui il sereno e le
stelle e i loro riflessi sul lago…
Oltre l’orizzonte, lontano, oceani più
antichi della terra traboccanti di ricordi e di… sogni. Mari tiepidi ai
pleniluni, brezze profumate, gabbiani le cui piume avevano la stessa lucentezza
delle nevi e ancora, foci, torrenti che bagnavano il pulsare lieve della terra…
Lei era un principio illimitato,
infinito, in cui tutto rientrava: piante, animali, coste, mari, le cose che
mutano e si muovono, anche le inanimate, quale ero io.
Lei era il complesso meccanismo
di Galileo…
Di lì a poco mi condusse in giro per il
cosmo: un piccolo uomo tra anime planetarie, io viaggiatore di limitati spazi,
conoscitore di brevi lassi di tempo, minuscolo frammento, microscopica
dimensione, fra raggi cosmici, onde, flussi d’energia…si udivano echeggiare
armoniche vibrazioni finché, all’improvviso, mi ricordai del mio passato!
In
un laboratorio atomico maturò la mia comprensione del modo in cui la natura
procede. Quel mondo quasi invisibile mostrava la composizione dell'universo. Si
era formata lì la mia riflessione, lì mi si svelarono le proprietà impensate
dovendo riconoscere che la natura era potente più di quanto potessi
comprendere, più di quanto potessi desiderare!
Non solo animali, dunque, cristalli,
conchiglie, ma stati molecolari, atomici, nucleari con tutti i loro
straordinari decadimenti.
Un mondo dove regnava
un’armonia infinita, bellezze perfettamente e volutamente nascoste…
In quel tempo vivevo come un’astronauta.
In una notte senza luna spiai
il dottor Jekyll dagli occhi di cobalto, mutare spontaneamente in un altro.
Vidi lievitare il nichelio,
novello Mr. Hyde, dal colore bianco argenteo.
Sapevo che nella sua forma
elementare poteva esistere soltanto nei meteoriti…
Era bastata una debole
interazione, una piccola forza, minuscole reazioni, strane, innocenti
collisioni, l’emissione di un semplice elettrone…
Chi lo poteva immaginare!
Ci sono forze che ruotano,
sospingono, attraggono e respingono, liete di generare mutazioni di specie,
incredibili magie, per alcune è questione di anni, per altri microsecondi; è
questo il fascino della vita media.
Alla fine chi decide è… il
tempo.
Ed era sempre Lei, la mia guida, capace di connettere l’insieme dei fenomeni, a
mostrarmi leggi necessarie, causali, coerenti con le aspettative della mia
mente.
Io e Lei partecipi di un‘unica storia, di un'unica realtà.
Tutto ciò che si scorge nell’infinito
Universo fa parte di un unico, immenso disegno.
Come si possono raccontare le
mistiche euforie al cospetto di paesaggi inattesi, dinanzi a nuove, profonde
verità…
La fortuna di vivere in un
simile mondo secondo il passo scandito dal tempo…
Nel
sogno le minuscole particelle riposavano ed io, con la lucidità di un
dormiente, sussurrai alla mia guida che qualsiasi cosa avvenisse:
“ Voi occuperete un posto a parte nella
mia vita…”
A poco a poco l’immagine addormentata si
sciolse in amarognoli sapori.
Un difficile, lento risveglio,
il respiro a fatica.
“ Oh, però si respira…”
Di
nuovo nel mio petto cominciarono a pulsare le vecchie frequenze, come se Lei fosse diventata un’amorfa presenza.
Mi sentivo
abbandonato dal sogno e dall’ordine bello, estraneo per quella donna/madre e mi
trovavo in una stanza fredda con tutta la mia fragilità.
Ero vivo, ma non
era Lei che mi teneva in vita.
Lei non amava il mio corpo, i bilioni di molecole non ben modellate,
riparate, rattoppate, non mi amava, come non mi ama il chirurgo che taglia e mi
fa vivere un microsecondo in più.
Continuare ad
esistere per poi continuare a morire.
Diffidavo di quell’esperienza che non mi
aveva condotto lontano dal bisturi, tutto mi portava a dubitare dell’assoluta,
obiettiva razionalità.
La mia vita era in
larga parte affidata all’indifferenza, al contingente, al… chirurgo, in un
mondo instabile, problematico.
Una semplice,
minima variazione, una perturbazione e accade l’incontrollabile, le cose
inanimate, le montagne rimangono, e… gli abissi…
Dunque
la mia coscienza, i sensi assopiti si erano sbagliati…
Lei non era la bellezza, il bene,
l’ordine ed io… un essere insignificante nella fredda immensità cosmica, nell’assenza
di qualsiasi finalità.
Un corpuscolo
inserito nel caos… io, io ero vivo per caso…
Forse le visioni sognate avevano soltanto
un fine poetico, letterario, materno, morale, gentile, tranquillizzante…
In quel momento avvertivo tutto il disagio
nel pensare a Lei.
Le calde sensazioni
si erano dissolte lasciando per intero, ingigantite, le mie antiche, ossessive,
ansietà.
Ubaldo De Robertis
“Lei”
RispondiEliminaPrimo Premio Prosa Concorso Nazionale Fazio Degli Uberti, XII Edizione.
Motivazione della Giuria
In “Lei” l'immaginario si fa schermo di una realtà insostituibile, eppure da cancellare per tutto quanto di doloroso, indifferente e precario sottopone l'uomo. I fantasmi del presente rendono più acuta e tormentata l'immagine evocativa del sogno. Per l'autore, evocare l'universo e la natura così potente, gareggiare col tempo e con la morte, è trasfigurare il rapporto fra l'essere e l'esistere: frantumare l'io.
In questo racconto balzano evidenti all’ occhio soprattutto due momenti narrativi, che coprono l’arco temporale (e immediati dintorni) di un intervento chirurgico: quello, euforico, dell’anestesia e l’altro, deluso, del risveglio. Nel primo, l’anestetico fa il suo dovere, eliminando il dolore fisico, ma, per fortuna, lasciando liberi i processi mentali e creativi ( o forse condizionando anche quelli?): in ogni modo a questo punto erompe “Lei”, la protagonista del racconto, la Natura, antropomorfizzata e umanizzata, guida, maestra e presenza benigna e benefica. Almeno in questa parte del racconto, dove sembra quasi che lo spirito o l’intelletto (che osserva e ricerca) sia messo di fronte ad una realtà senza alcuna ombra, anzi incredibilmente chiara. Di solare evidenza, di esemplare bellezza, di completa armonia e, per di più, disposta in ordine perfetto.
RispondiEliminaL’altro momento è quello del risveglio, del rientro in una condizione tutta umana e problematica, con il pesante carico del dubbio, dell’errore, della paura, della fragilità, della corporeità malata e sofferente. E quella “Lei”, come la “Natura” leopardiana (e lucreziana), si mostra, come di fatto è, matrigna, disinteressata alle vicende umane e lontana da esse.
Mi pare notevole la parte giocata sul registro del sogno, ricca di situazioni naturali insolite, di rivelazioni, di stupori. Effimere, purtroppo. Proprio come i sogni.
Complimenti all'autore!
Pasquale Balestriere
Pasquale Balestriere ha colto “due momenti narrativi/quello, euforico, dell’anestesia e l’altro, deluso, del risveglio.” Proprio questo era nel mio pensiero al momento di scrivere, così come è vero che sopra di me, oltre alla terribile lampada alogena della sala operatoria, aleggiava lo spirito di Leopardi e Lucrezio. Balestriere è un letterato a cui non sfugge l’esatto significato dei lemmi impiegati in un' opera e il suo commento è sempre un prezioso ausilio per qualsiasi scrittore. Grazie infinite. Ubaldo de Robertis
EliminaIl racconto "Lei" è perfetto, sia dal punto di vista letterario -grande equilibrio nell'architettura delle varie parti del narrato, stilisticamente elegante per la raffinatezza del lessico- sia dal punto di vista narrativo, perché riesce a tenere la tensione fino alla fine. E' davvero una pagina notevole! L'autore è riuscito a combinare abilmente le sue due anime: alla lucidità metafisica si sposa in modo meraviglioso la delicatezza poetica. Tuttavia, se non m'inganno, dietro tutto questo c'è il vero Ubaldo de Robertis. Così come in "Lei" si indovina una realtà (sognata!)
EliminaIn fondo tutto il racconto mi richiama un senso di nostalgia, una nostalgia dell'amore. Quella figura , la "Lei", non è, secondo me la Natura, come vuol sembrare, ma l'immagine idealizzata della Donna. Complimenti.
Edda Conte
Ho cercato di trovare una sola appropriata parola per esprimere quanto ho sentito leggendo questa riflessione poetica. Non ho scovato quella parola, forse perché non esiste oppure si trova molto al di là della nostra galassia; in un mondo rispetto al quale ciascuno di noi è assai meno di quella infinitesima parte di materia formatasi in questo. Ma formatasi solo per caso, oppure per un disegno Superiore ? Chi siamo, cioè, ciascuno di noi ? Soltanto una briciola di atomo "a perdere"?
RispondiEliminaSecondo me,l' aforisma cartesiano del "cogito ergo sum" non basta; e bisognerebbe pensare invece di dover un giorno, sperabilmente lontano, anche noi"entrare nell'ignoto per incontrare il nuovo", come scrisse Baudelaire. Incontrare, cioè spero, la vera natura di noi stessi, ciascuno nell'essenza della propria LEI, senza la Quale non avremmo potuto diventare la briciola di atomo sopra detta.
E' questo che Lei mi ha fatto pensare. Quella parola allora che io non sono riuscito a trovare nel linguaggio comune si trova forse soltanto nella radice eterea della mia LEI, simile (se non identica) a quella che ciascuno di noi può sentire nella propria mente, senza saperla pronunciare.
Complimenti. Raffaele Cataldi.