I
lavori letterari di Ubaldo de Robertis rivelano un’attenzione diffusa e
approfondita per la realtà naturale. Ripenso a una raccolta poetica come Diomedee (Edizioni Joker, Novi Ligure,
2008) e mi permetto, a titolo di esemplificazione preliminare e appena
indicativa, una citazione ad apertura di libro, da una lirica ispirata a
fertile disposizione contemplativa:
Arsa la terra, impronte sulle sterili sabbie, inerti
sulle rotte battute, deserti, sterminati.
Carovane, cammelli accovacciati,
falde profonde, vento sui palmeti,
sui lembi delle tende aperte alle brezze,
aspidi sulle dune, sciami di locuste, agguati (…)
Non sono salito per far perdere le mie tracce…
E’…che…non avevo sonno e volevo gustare
l’amore silenzioso della luna
(Piramidi, vv. 1-6 e 21-23)
Anche
nel racconto Lei la natura è
protagonista e un animus pascaliano
sottende l’elaborazione del testo imperniato sulla sottolineatura ammirata e
partecipe della vastità e varietà sterminate e soverchianti dello spettacolo
naturale e altresì della perfetta, armoniosa funzionalità dell’estremamente
piccolo, che ne rappresenta la componente biologica basilare, il fondamento
vitale, i lucreziani primordia rerum.
La
dimensione ampia e dilatata della visione è fonte della dinamica espansiva ed
esplorativa che presiede in più luoghi alla scrittura, è occasione di
un’esuberante accumulazione descrittiva, sulla falsariga dell’ammonimento del
grande pensatore francese secondo cui se “la nostra vista si arresterà, l’immaginazione
vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia”;
mentre l’osservazione dell’immensamente piccolo favorisce l’introversione
critico-problematica, la concentrazione riflessiva.
L’uomo
è solo parte dell’universo naturale, e nella sua vicenda storica è apparso spesso combattuto fra l’ambizione
prometeica a imporsi a esso, fra il disegno di dominio razionale e il bisogno
di rientrare nella natura, attingendo da questa i principî e i valori della
propria vita.
Credo
che l’autore privilegi in tutta la sua opera la seconda disposizione, e nel
racconto in questione focalizzi in forme di significativa densità allegorica il
rapporto tra l’individualità umana – còlta nei suoi limiti di quotidianità
opaca e deiettiva, di vuoto realismo utilitario e abitudinario, di veglia sterile, auto-controllata e
appiattita sulle necessità dell’ “esistere”
- e le radici generali della
vitalità biologica, esaltante e autentica, che sovente si appalesa entro lo
spazio liberato del sogno, aperto ai
richiami dell’ “essere”.
Ricordo
una considerazione di Martin Heidegger in
Essere e tempo (1927):
“Lo
stato di deiezione presso il “mondo” equivale all’immedesimazione nell’esser-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e
dall’equivoco”.
E
il conte philosophique di De Robertis
presenta spunti intellettualmente stimolanti in vista della ricerca di un
significato non scontato, non semplicistico e ingannevole del vivere.
Floriano Romboli
Nota di Lettura di ANTONIO SAGREDO
Il racconto è un dislocare in un altrove
quieto e benefico la "sostanza scientifica"
dell'autore che non sarebbe completa senza quel desiderio dell'arte che lo
assilla... la presenza della donna è delicata e materna, è quell'Eterno
Femminino che il poeta Puškin inaugurò nella sua Russia e che l'apice fu
raggiunto un secolo dopo da Aleksandr Blok e Pasternàk. Infatti l'autore del
racconto scrive: " Ed era sempre
Lei, la mia guida, capace di connettere l’insieme dei fenomeni, a mostrarmi
leggi necessarie, causali, coerenti con le aspettative della mia mente".
Ma il poeta detta:
Gli
svolazzi della mia mente erano capricci di
stiletti spuntati a malincuore,
da
una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
-
era la terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di
lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza che compresi
dai
miei occhi, e come Dio fosse a sua volta
una creazione della Rota,
l’emorragia
di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le
contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo pinto
da
epitaffi e necrologi… per fissare, in una
partitura, gli anelli della Storia.
Antonio
Sagredo -2014
Lo scrittore accomuna il sentimento a termini scientifici,
quasi a pareggiare i conti nel contesto suo vivente! Emilio Villa scrisse: " E' una lama d'assenza che ci unisce
", che è: "quel momento[in
cui]avvertivo tutto il disagio nel pensare a Lei!"
Sembra la riflessione lirica parta da una digressione che
allontana lo scrittore dalla Terra, perché scaturisca poi una nostalgia, e un nostos voluto contro ogni volontà estranea che
lo rincorre!
Mi fa
pensare questa digressione a quelle frequenti di Lovecraft, quando squassato
dai pensieri terrifici – creati dalla sua prosa fantascientifica o fantasmatica
- e dalle immagini che nel suo cerebro si sono immessi e non vogliono andar
via, – si rifugiava in sogni d’infanzia dove dolore e angoscia non esistono.
E una
pausa è come una tregua ad un affanno che chiede una tranquillità cosmica delle
cose, una armonia prima che nel proprio spirito.... e tutto si svolge in un
effimero altro mondo, indefinito carosello oscillante tra umano, scienza e
fantasticheria… l’apparizione della donna, questa Sconosciuta, è un
toccasana, positivo prodigio insensato più che desiderato oblio... come una
salute rinvigorita da una alternanza benefica quale la può originare un
simbolismo fantastico sposato ad una analisi scientifica.
La
guida di una Euridice rediviva e recidiva nell’azione del ritorno in quel
liquido della maternità protettiva, e l’Orfeo che ancora una volta obbediente
si fida di lei più che delle fedi offerte all’umanità da finzioni numinose:
sono anch’essi, queste i figuri, sublimi finzioni che si oppongono
ingloriosamente alla materia!
E si
inizia allora un viaggio a ritroso attraverso passaggi simultanei colmi di
desideri e di fughe oltremarine… mi fanno pensare ai mondi di Gerard de Nerval
in Aurelia o ai mondi acquatici di
Bachelard o a quelli - tutto bollicine - del russo Andrej Belyj.
La Natura-Euridice la vince sull’ Orfeo-Canto, poi che il principio senza limiti di Galileo
spalanca portali di scoperta (direbbe Joyce!) non soltanto linguistici, ma è
banale dire scientifici... oramai... si sa che è così... che dire altro?
Se il poeta dichiara a piena
voce IO SONO FIGLIO DELLA MIA PAROLA! Il filosofo salentino Giulio Cesare
Vanini, ateo eretico, grida con lingua già recisa IO SONO FIGLIO DELLA MIA
NATURA! * E con questo pone fine al divino una volta
per tutte!
E Jekyll–Hyde-Orfeo non sono che maschere, poi che alla
fine chi decide è… il tempo.
Ma Il poeta detta:
Liberati
dal Tempo resteremo infine orfani felici
in
un dove che Padri e Figli non sapranno mai
che
quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
scorre
mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
Antonio
Sagredo
(da Il ponte del
suono, 2004)
E
questo è il poeta che risorge non per virtù materne, ma per desiderio delle
macchine che mettono fine al mito di una Euridice redentrice e salvifica poi
che “Lei non era la bellezza, il bene,
l’ordine”…ma rappresentativa finale di un disagio il solo pensare a
Lei…dunque risultato del sogno di una scrittura che non era mai esistita… e
anche quell’Orfeo che se ne ritorna con le antiche, ossessive, ansietà in una
corsia qualunque di un ospedale qualsiasi.
*
(dal
poema Tholosae combustum – MDCXIX - 2007)
Antonio Sagredo
Ringrazio Floriano Romboli per l'elegante lavoro esegetico compiuto. Tra noi si è stabilito da tempo un legame di comprensione e debbo ammettere tutto a mio vantaggio. Da illustre letterato commentatore critico a semplice discepolo. Con riconoscenza, Ubaldo de Robertis
RispondiEliminaComplimenti ad Antonio Sagredo per il suo originale metodo di lettura che in qualche modo tende a oltrepassare il mio testo narrativo con aggiunte poetiche personali. E' qualcosa di più, e qualitativamente elevato, che riesce a mettere meglio in luce il mio breve racconto. Grazie.
RispondiEliminaUbaldo de Robertis