Charlie,
però (X IRES)
Nei
giorni scorsi, in un clima fibrillante di indignazione e di dolore per i
tragici fatti di Parigi, di fronte alle vittime della redazione di “Charlie hebdo”
e delle altre vittime del terrorismo, ho subito risposto “je suis Charlie”, ai
tanti appelli che mi sono giunti da molteplici parti. Ho anche fatto partire
anch’io di mia iniziativa messaggi analoghi. Ho avviato, tra l’altro, un
dibattito con un amico artista, che pensava e pensa diversamente. Sono stato,
sono, sarò Charlie per sempre. Non si può, infatti, non essere contro il
terrorismo e la barbarie. Per la libertà tout court, senza se e senza ma.
Però, occorre aggiungere qualche codicillo. Certo,
per la libertà bisogna essere disposti perfino alla morte. Non si può, tuttavia,
non considerare che questo discorso che, in un ambito di civiltà come la nostra
costituita sulla cifra del liberalismo, non ammette repliche nella sua solarità
e perentorietà, non può non tener conto
che innanzitutto esistono molti altri discorsi, che le vicende storiche e le
culture locali legittimano pienamente. Ogni discorso, compreso il nostro, che è
frutto di sofferenze plurisecolari, di contraddizioni tragiche e che ha a punti
fondamentali di riferimento il Vangelo e il 1789, si deve riconoscere discorso.
E il discorso, in quanto tale, si deve
nel concreto validare in rapporto agli altri discorsi, che, se sono altri, non
possono essere in tutto componibili col discorso, a cui ci stiamo riferendo e
che ci sta a cuore. Anche questi altri
discorsi ambiscono ad essere riconosciuti e rispettati. E’ come la norma, che,
per essere norma, deve rientrare nell’ambito delle norme. Altrimenti ne resta
fuori. Come la parola che non è mai un primum in assoluto, ma, per acquistare
cittadinanza, deve incontrarsi/scontrarsi con tutte le altre parole e prendere
fra loro residenza e fare comunanza, agire in un’interrelazionalità fondata
sulla societas. Niente nasce dal nulla, tutto diviene, dice una legge
scientifica. Nel vivere umano, il pre-dato, il tradendum, che fonda la
tradizione (che fisiologicamente è anche tradimento), è il consorzio tra gli
uomini. E, se in questo consorzio una interpretazione non concorda con l’altra,
bisogna darsi “o pizzico ‘ncopp’a panza”, come si dice a Napoli, e andare
avanti in condominio con gli altri, che hanno il diritto di avere convinzioni
diverse. Proprio come ho visto fare in Germania pochi anni fa, quando non fu
mandata in scena a Monaco di Baviera un’opera di Mozart, che doveva inaugurare
un’intera stagione teatrale, perché in quel lavoro mozartiano potevano essere
ravvisati aspetti offensivi nei confronti dei musulmani, la cui presenza in
Baviera e negli altri Länder tedeschi non è irrilevante. Senza dire, infine,
che forse, soprattutto in un tempo di globalizzazione travolgente, entro il
quale sono sincronici arcaicità e modernità, nomadismo e stanzialità, qualche
pensierino sul versante teorico e laico andrebbe fatto di aggiustamento
dell’idea di libertà, che non può non deve funzionare in maniera coattiva,
totalitaria, assoluta. L’occasione è buona perché ci si rimbocchi le maniche e
si aiuti la libertà ad essere libera dalla maglia stretta delle
assolutizzazioni.
Ugo Piscopo
Cari
Amici,
che
avete letto il mio “Charlie, però”, e avete risposto, inviandomi osservazioni
molto pertinenti e stringenti, mi sono sentito in obbligo di integrare e
chiarire i miei assunti e ho scritto questo tracciato introduttivo, che vi
mando.
In
sintesi, il mio concetto di libertà è che questa gentile e fascinosa fanciulla,
che è la libertà, che reca sulle sue gambe freschissime e piene di vitalità un
bouquet di intriganti simboli, come è codificato nel suo nome di antichissime
origini indoeuropee diramatesi nel greco, nel
latino, nel celtico, nell’ambito germanico, non può abusare del suo fascino, non può
concedersi il lusso di fare la donzelletta vezzosa fra giovinastri, goliardi,
frequentatori di angiporti taverne e
dintorni, né può sprecare tempo o crescere
in mezzo a fantasticherie, né, infine, può abbandonarsi a pulsioni di
libertarismo. Ecco, la libertà non può essere libertaria.
A
monte di questa posizione, che mi sono costruita nel tempo, frequentando
letteratura, arte, filosofia, storia e altre scienze umane (etologia compresa),
si colloca una lezione di civiltà costituita sulla cifra fondamentale della
responsabilità e della consapevolezza della complessità della vita. La
frontiera, con cui, secondo me, bisogna confrontarsi è quella della interrelazionalità, che non
inventiamo noi, ma che inventa e agisce noi, e della effettualità (nel senso
dato da Machiavelli al termine) o, meglio, del factum che è il nostro umano verum,
come insegna il nostro G.B. Vico. Solo su questo terreno, il discorso,
qualunque discorso si fa umano e insieme sostenibile.
Questa
convinzione e questa scommessa, le ho fatte mie non solo sul piano teorico e
conoscitivo, ma anche su quello della vita quotidiana e della relazionalità
concreta con gli altri.
Faccio
subito un esempio: la scuola. Che mi ha preso tanto, che una volta mia moglie,
infastidita, mi invitò a prendermi la branda e andarmene nella “mia” scuola,
tanto a casa stavo solo per dormire e mangiare in fretta un boccone.
Bene,
a scuola ho lavorato molto, ma ho anche fatto lavorare gli altri e di ciò non
mi pento. In ultimo, però, ho concluso, stringendo un pugno di mosche fra le
mani, come si dice al mio paese. Perché ho dovuto registrare che di scuola si
può /piace a tutti parlare, parlare, parlare, si può anche fare, la scuola, e
si fa a chiacchiere e per errori, ma non mai sul fondamento della necessità
(nel senso indicato da Spinoza, da Hegel, da Marx). E uno degli ostacoli
maggiori è costituito da un concetto malinteso di libertà.
A
scuola è il trionfo della libertà, intesa come fantasticheria, arbitrio
personale, slogan che suonano talora incantevolmente, che vengono perfino
sparati a raffiche micidiali. In prima linea, sono i docenti, che per
nient’altro sono pronti a scendere in guerra quanto in difesa della propria
autonomia. Non si può non essere d’accordo con la petizione di principio,
purché l’autonomia non significhi esercizio di soggettivismo e di narcisismo.
L’autonomia può e deve essere difesa e posta in essere concretamente, ma nella
valorizzazione al meglio delle proprie risorse, per dare risposta agli impegni
presi con un contratto sociale, nelle cui clausole i punti fondamentali sono
costituiti dall’istruire e formare, non a libero piacimento di chi insegna, ma
per collocare nel mondo un soggetto che
è in via di appropriazione dei modi di imparare e di relazionarsi con
sé, con l’ambiente, con gli altri, col passato e col futuro, dentro e fuori
delle pareti scolastiche, che nel confronto con gli altri deve scoprire e possibilmente potenziare nel positivo le proprie inclinazioni, per orientarsi nelle
scelte e non perdere tempo a seguito di errori talora gravi di opzione, che
deve sapere usare gli strumenti della conoscenza,
sia per arricchirsi, sia perfino per dimenticare quanto non gli serve. Tali
obiettivi non possono essere affidati alle estrosità e ai facili riduttivismi.
Vanno pensati, programmati, verificati in itinere, su tracciati oggettivi, che
siano di riferimento anche agli altri colleghi impegnati con analoghe sfide per
raggiungere i medesimi fini. Ma questo, se
è facile a pensarsi e a dirsi, è pressoché impossibile a calarsi nel
concreto, perché i docenti sono gelosissimi custodi della propria autonomia e
della gestione della propria genialità. Non sanno, non vogliono sapere che il
lavoro efficace formativamente non può essere svolto se non in équipe, dal
momento che i singoli alunni, le classi, l’istituto sono nelle mani non di uno
solo, l’illuminato, ma nelle mani di
tutti gli addetti ai lavori messi insieme. Altrimenti, gli alunni e le classi, al termine del
processo di lavorazione attraverso cui passano, si fanno l’idea che esistono
tante educazioni, ovvero diseducazioni , quanti sono i soggetti
educanti/diseducanti, con i loro umori, con le loro coazioni a ripetere, con le
loro fobie, con le loro rimozioni che ritornano sotto forma di isterie e
nevrosi varie, con i loro eroici furori,
nel migliore dei casi. A rispecchiamento di tali effetti, apprendono che i
processi formativi sono, se non una maledizione del cielo, un intrattenimento
noiosissimo, che non riguarda per nulla la loro vita intima. E’ il riscontro
che la scuola, che è istituita e mantenuta nell’interesse sociale per la
formazione dei soggetti in
apprendimento, funziona nei fatti come un insieme di teatrini e di palestre
messi a disposizione dei cosiddetti
docenti.
Da preside ogni tanto mi compiacevo di fare lo
stordito, a mimesi dello stato di eteroclicità della situazione complessiva.
Certe volte, ai professori che mi dicevano “Preside, nel nostro Istituto sta
succedendo questo e quest’altro”, io chiedevo “Nel nostro Istituto, ma di quale
istituto parlate?”. In genere, si guardavano disorientati e i più non
fiatavano, come se si trovassero di fronte a uno che avesse preso un colpo di
sole. Chi aveva maggiore familiarità e ingenuità, cercava di svegliarmi dal
torpore e dal disorientamento: “Ma Preside, il nostro Istituto è questo” e
facevano il nome del Liceo. Allora, io incalzavo: “Il nostro Liceo, oh quanto
sono distratto! Ma certo, però di quale liceo parliamo, di quello della sezione
A? di quello della sezione B? di quello della centrale? di quello della
succursale? di quello del Professore di Filosofia, Giovanni da Lentini? di
quello del Professore di matematica, Nicola Fermi?”. Qualcuno abbassava la
testa a riflettere in silenzio, qualcuno mi gratificava col riconoscimento che
avevo ragione.
Sì,
avevo ragione, che bella soddisfazione!, ma fra le rovine, in mezzo alle
distorsioni avvenute e che stavano ulteriormente avvenendo, in molti casi
irreparabilmente, ai danni di vittime incolpevoli, che a scuola venivano ad
apprendere l’arte d’essere compiacenti, per sopravvivere possibilmente in
maniera allegra,di prendere in giro gli
altri, comprese le proprie famiglie, perfino di disistimarsi e degradarsi.
E
tutto ciò, in nome della trionfante libertà.
Ma
se i docenti erano e sono le truppe di prima linea di questa battaglia,
trovavano/trovano oggettive omologie in tutti gli altri operatori scolastici,
dal personale ausiliario e tecnico ai dirigenti. Tutte queste altre figure, per
un verso o per l’altro, con uno stile o con l’altro, vantano crediti insolubili
da parte della collettività, come martiri di situazioni ingiuste, scompensate,
assurde, intanto come soggetti preziosi ai fini del funzionamento generale, per
il quale si sono prodigati e continuano a prodigarsi, con sacrifici immensi
sostenuti ai danni della propria libertà e perfino, in alcuni casi, della
propria dignità. A risarcimento parziale, chiedono almeno gratitudine, per non
aver potuto/ non potere soddisfare il bisogno insopprimibile dell’esercizio
della libertà personale. Vorrebbero dei monumenti più o meno come caduti in
guerra o quasi.
Non
parliamo, poi, delle feroci, non sempre sottili, guerre che si fanno tra eguali
in basso e tra dirigenti ai vertici, quali i responsabili dei servizi di
segreteria e i capi d’istituto, come si diceva un tempo. Stanno tutti con le
scimitarre affilate per fare fuori il nemico, che vuole sottomettere e svilire
l’avversario. Da ispettore, tra le questioni più rognose e difficili da
risolvere pacificamente, ho sperimentato proprio questo genere di vertenze “lui
ha detto, io ho detto”, “lui ha cercato e io naturalmente ho cercato”. Il
colpevole, naturalmente, è sempre l’altro. Il motivo scatenante è sempre la
difesa della propria libertà e della propria dignità, a cui ognuno vorrebbe che
fosse eretto dalla comunità, se non un tempio, almeno un tempietto, qualcosa
che puzza già solo da lontano di postumità.
Se
si dovesse in estrema sintesi definire questo paesaggio, bisognerebbe, su
suggerimento di Francisco Goya, intitolarlo “Los Desastres”. Ma il guaio è che
non si tratta di un paesaggio da ammirare o da compiangere, perché in sostanza
vi si svolge quotidianamente un insieme di psicodrammi individuali e di gruppo
reali, si sacrificano tempo ed energie a una mandata in scena del soggettivismo
personalistico, sotto tutela del sacro principio della libertà.
Entro
un contesto del genere, l’unica possibilità di essere liberi eticamente
legittimati (in senso spinoziano) è quella di non farsi illusioni, di non
aggiungere alienazione ad alienazione, di prendere atto dell’esistente e
cercare di calcolare e valorizzare gli interstizi fra contraddizione e
contraddizione, gettarvi dentro dei semi, attendere che possano germinare e crescere,
fare appello alle forze sane e responsabili, per introdurre una variabile che
cambi il profilo dell’equazione complessiva. Tenere presente l’affermazione
giustissima di Hegel, secondo cui la libertà è la consapevolezza della
necessità. Nella scuola, in realtà, a tutti i livelli ci sono, anche se
minoritarie, straordinarie risorse di intelligenza e di passione, il guaio però
è che esse vengono marginalizzate e, in taluni casi, penalizzate, quasi che sia
un colpa essere preparati, coerenti, innamorati davvero del proprio lavoro e
della propria funzione. Il sistema complessivo, purtroppo, funziona come una
macchina schiacciasassi, perché tutti siano eguali nella medietà e nella
mediocrità, utilissime a fare risparmiare quantità e qualità di impegno e di studio.
Gli operatori della scuola, quando si trovano insieme, si avvalgono anch’essi
del ritrovarsi insieme, come in genere tutti gli altri lavoratori, per tenere
una linea di condotta quanto più economica possibile, ovviamente in basso.
Per
uno come me, che pensava da docente che i problemi scolastici e formativi si
dovessero affrontare frontalmente, che da preside nei licei ha dovuto constatare sulla propria pelle che
l’equazione da risolvere è molto complessa, se vista dall’interno dell’intera
unità scolastica, costituita sulle discontinuità e diversità, sulle
competizioni e sulle conflittualità, oltre che sugli scambi interpersonali e
interfamiliari più o meno vischiosi, e che infine da ispettore, prima a livello
regionale, poi a livello nazionale, ha scoperto che la scuola è adoperata
strumentalmente per ragioni del tutto
allotrie alla sua natura come utile congegno a far allentare le tensioni del
mercato del lavoro e ad assicurare la stabilità dell’esistente dando
l’illusione che tutto cambi, perché nulla cambi realmente, tutti i documenti,
le proposte e gli studi fatti sui processi formativi, osservati squisitamente
dal punto di vista formativo, pedagogico, metodologico, didattico,
disciplinare, fanno non so se più piangere o più ridere. Li guardo come dei
divertissement mentali, come esercizi di lettura del libro dei sogni.
Nient’altro. Perché la scuola non è la stessa cosa di un bel panettone o di una
deliziosa torta: questi si fanno con tanto di farina, di zucchero e altri
additivi, entro tanto tempo, con tale
specifico trattamento prima, durante e dopo la cottura. La scuola, di contro, è
vicenda, in cui sono coinvolti gli uomini, cioè degli esseri complicati assai e
imprevedibili, meravigliosi e insieme pericolosi, in tutto il loro impasto, agenti
entro reticoli di relazionalità complesse. Le quali relazionalità dovrebbero e
potrebbero essere ottimizzate e razionalizzate, se il discorso generale si
fondasse su altre premesse, quelle delle abilità tecniche, dell’utilizzo
intelligente dei patrimoni di saperi, dell’umiltà di funzione, innanzitutto
dell’amore per gli altri, soprattutto per i soggetti in via di apprendimento e
di formazione, insieme con i quali
bisogna imbarcarsi a rischio individuale e di gruppo per una navigazione, che
può essere calcolata in partenza, ma che arriva ogni volta su altre sponde, che
possono essere e sono un bel po’ diverse da quelle pensate in partenza.
Personalmente,
al termine della mia esperienza, che mi ha portato ad essere insignito del
titolo di “benemerito della scuola, della cultura e dell’arte”, con un decreto
firmato dal Presidente della Repubblica pro tempore, mi sono chiesto, forse da
ingrato, come mai la scuola non sia stata presa in esame da Foucault e non sia
stata posta accanto al carcere e alla clinica, come istituto di coazioni, di
ripetitività, di integrazione nell’ordine costituito dalla società dominante.
Ma
della scuola, satis superque. Diamo
adesso uno sguardo attorno alle situazioni offerte dalla realtà nazionale e da
quella planetaria riguardo al dialogo (frastornante e ambiguo) con il concetto
di libertà.
Il
nostro Paese è, sotto gli occhi (increduli?) di tutti in Europa e nel mondo,
quello dove è scoppiata una festa durata quasi un ventennio (che nei tempi
moderni ha un senso di molto maggiore pregnanza semantica rispetto al passato)
della Libertà, anzi delle Libertà. Non per nulla il movimento-partito della
Casa delle Libertà (nome molto promettente sul piano fabulatorio) è stato a
lungo approvato e seguito dalla maggioranza degli italiani, che, come è noto,
sono molto sensibili agli spettacoli e alle promesse di regni di Bengodi, dove
poter trascorrere l’esistenza, in affluenza di ogni bene materiale, senza la
necessità di logorarsi le meningi a pensare come fare per ottenere una meritata
ricompensa. In questa festa ventennale, che eccitava e rendeva orgogliosa la
maggioranza della popolazione, si legittimavano tutti i generi di Libertà,
senza che questa massa di individui fosse attraversata da un solo, piccolo
dubbio circa lo sdoganamento di tutte le libertà. Eppure, prudenza e buon senso
avrebbero voluto/vorrebbero che si esercitasse un po’ di “discrezione” (nel
modo inteso da Guicciardini) e che si tenesse presente che, per fare un buon
raccolto di grano, bisogna a monte distinguere e difendere questo prezioso
cereale dalla commistione invadente di altri selvatici cereali, perché non
tutti i cereali si equivalgono. E ciò vale nella materialità dei fatti, come
sul piano morale e intellettuale. Dice, ad esempio, Kierkegaard
dell’interiorità, che è da lui assunta a frontiera per eccellenza di tutto il
suo speculare indirizzato a seguire un itinerario sempre più dentro
all’interiorità, che è prioritario vigilare a non concedersi a “qualunque interiorità” (Postilla conclusiva non scientifica a L’intermezzo filosofico).
Nel mondo
contemporaneo, poi, la libertà è in pericolo come non mai. Perché, come è stato
avvertito lucidamente da Horkheimer e dagli altri Francofortesi e come è venuto
precisandosi in una vasta letteratura critica, che comprende molte discipline,
le manipolazioni dell’idea di libertà possono strumentalmente indurre in
maniera soft e convinta pressoché tutti, compresi i possibili antagonisti, a integrarsi unidimensionalmente,
confortevolmente in processi di conformismo di massa. A esercitare, cioè, la
libertà di scegliersi liberamente la propria schiavitù, come esplicita Marcuse.
Stiamo, così, tutti su un clinamen, che induce a slittare là dove ci portano
logiche strumentali. Perfino ad accettare come un successo quella che è magari
una sconfitta. Osserva a tale prop+osito Slavoj Ztziek (“Corriere della Sera”,
3 febb. 2015): “L’illibertà mascherata del suo opposto si manifesta in una
miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che
ci offrono la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando
non possiamo più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a
cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono
l’opportunità di reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative,
latenti nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei
nostri figli ci dicono che «investiamo su di
noi», come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le
risorse […]. Bombardati costantemente da «libere scelte» imposte, costretti a
prendere decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza
qualificati (o informati), viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso che ci
sottrae la vera scelta di cambiare”.
Ed
ecco che siamo di fronte a un’anfibologia, che si disocculta non per la prima
volta nella storia e negli ambiti speculativi. Ma l’anfibologia della libertà,
oggi più di ieri, si interfaccia in mille altre declinazioni. Ad esempio, non
solo nelle banalizzazioni e nelle strumentalizzazioni, ma nelle
generalizzazioni e nelle tassative normativizzazioni stesse del concetto, in
cui, occultando le contraddizioni esistenti e le difficoltà da affrontare per
una soluzione dei problemi, si danno volontaristicamente (per proiezioni
inconsce) come avvenuti e accettati processi, che bisogna ancora attivare o che
si sono appena avviati. Sono escluse da questo ambito le normativizzazioni
istituzionali, come nella Carta Costituzionale italiana o come nella Carta dei diritti, che invece aprono
autostrade al progredire delle interpretazioni, a sostenere battaglie per
riconoscimenti e provvedimenti nel pubblico e nel privato. Ci si riferisce
soltanto a profezie, a vendite di indulgenze, a promesse e utilizzazioni
politiche, dove la politica è intesa e tradotta concretamente in una quotidiana
disinformazione delle situazioni effettive. L’anfibologia, ancora, si
interfaccia nei transfert e nelle involontarie identificazioni del soggetto
nell’oggetto, quando democrazia e libertà diventano sinonimi di società e
culture evolute nettamente distinte dalle culture e dalle società in via di
sviluppo o connotate tuttora dall’arcaicità. In questi casi, l’elogio della
democrazia e della libertà è, oggettivamente, l’elogio di quelle aree geopolitiche,
che vantano il credito di avere elaborato e fatto affermare questi valori nel
mondo. In pratica, si tratta dell’elogio di sé stessi, del proprio
etnocentrismo, che si pone in essere, destituito di ogni rispetto per gli
“altri”, privo di ogni consapevolezza come quella che è centrale nelle ricerche
antropologiche ed etologiche della modernità, arbitrario e sconfinato, che ha
smarrito ogni rapporto con gli avvertimenti di prudenza disseminati nel corso
della storia, come quelli contenuti nel trattatello plutarchiano di tanti
secoli fa, Come è permesso lodare sé
stessi. L’anfibologia si allarga a slavina, inoltre, nelle concezioni e
nelle attuazioni di dominio e di controllo, favorite oggettivamente da
dinamiche non assoggettate al confronto con quello che i greci chiamavano il
“logos”, lasciate a sé stesse, anzi legittimate come naturali, quasi che ciò
che si promette e si proclama come valore abbia il diritto sempre e comunque di
sperimentarsi e di mettersi in atto. Senza sapere che le idee e le promesse di
bene possono essere portatrici involontariamente di aggressività, intolleranza,
totalitarismo, come osservava nel secondo Ottocento Ralph Waldo Emerson
riguardo ai comportamenti ideologici. Egli affermava che “non vi è nessuna
mente, nessun pensiero che non tenda rapidamente a convertirsi in potenza e ad
organizzare una misurata strumentalità di mezzi”.
Queste
e altre simili distorsioni, che magmaticamente dilagano nel mondo di oggi,
richiedono a tutti di riflettere un attimo prima di usare parole e concetti, e,
riguardo alla “libertà”, di considerare i rischi di usi impropri e di
prevaricazioni. Occorre fare innalzare i livelli dell’autocoscienza e della
conoscenza dell’interrelazionalità che ci colloca tutti nel mondo e del fatto
che i valori non si calano nel mondo una volta per sempre, ma bisogna
difenderli ogni attimo da imbalsamazioni e celebrazioni, in quanto devono
camminare sulle gambe della gente, che è in continua oscillazione, in
equilibrio continuamente instabile di avvicinamento e di allontanamento dal
reale.
Siamo,
quindi, solo ai prolegomeni di un discorso da ridefinire e collaudare. Queste
sono solo le premesse liminari. Che, poi, in sostanza, già si sono affacciate,
ed anche energicamente, alla speculazione del pensiero. Come nel caso di questa
glossa monitoria e pregnante di eticità di Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B.
Croce, Laterza 1907): “Di nessun’idea si sa così universalmente, che è
indeterminata, polisensa, e adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori
equivoci, come dell’idea della libertà;
e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza. Poiché lo spirito
libero è lo spirito reale, i
malintesi intorno ad esso hanno conseguenze pratiche tanto più mostruose, in
quanto, allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro
mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una
forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello
spirito, e cioè la sua realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e
l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora i Greci e i
Romani, Platone ed Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi
sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la
nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.), o mercé la forza del
carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in
catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del Cristianesimo;
pel quale l’individuo come tale ha valore infinito,
ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione
assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè
l’uomo è destinato alla somma libertà. Se nella religione come tale l’uomo sa
la relazione verso lo spirito assoluto come verso la sua essenza,egli ha
presente inoltre lo spirito divino anche come quello che entra nella sfera
dell’esistenza mondana, come la
sostanza dello stato, della famiglia, ecc. Queste relazioni vengono, mediante
quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed egualmente,
mediante quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed
egualmente, mediante siffatta esistenza, il senso della moralità diventa insito
all’individuo; ed egli allora, in quanto sfera dell’esistenza particolare, del
sentire e del volere presente, è realmente
libero”.
Napoli, febbraio 2015
Ugo Piscopo
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